Il ghetto combatte
lettura da Getto Walczy di Marek Edelman, 1945
1. TERRORE
L’occupante tedesco che penetra a Varsavia nel 1939 trova la popolazione ebraica in preda alla confusione e al caos più totale. Quasi tutte le personalità hanno lasciato Varsavia il 7 settembre. Dirigenti politici, animatori sociali e intellettuali hanno abbandonato la capitale. Più che mai, i trecentomila ebrei che vi abitano si sentono soli e disorientati.
In tali condizioni è molto facile per i tedeschi dominare questa massa di gente, metterla in ginocchio e costringerla alla passività e alla rassegnazione. L’apparato di propaganda tedesca, raffinato e sperimentato, si impegna in questo scopo a ritmo serrato. Diffonde le notizie più inverosimili dell’epoca aumentando così il panico e il disordine. Le percosse piovono a caso, le aggressioni sadiche a domicilio, le retate improvvise in vista di corvè inutili non sono che il primo stadio, presto superato, della repressione antiebraica. Essa passa ben presto ad un altro livello, diventando caratterizzata e sistematica.
I primi decreti di “liquidazione” sono pronunciati a metà del novembre 1939: apertura dei campi di “educazione” per la popolazione ebraica e confisca di tutti i beni al di sopra dei 2000 zloty per famiglia. Da quel momento un’ondata di nuove leggi e divieti si riversa senza tregua: divieto di lavorare nella grande industria, divieto di lavorare nelle istituzioni pubbliche e negli organismi dello Stato, divieto di cuocere il pane, divieto di guadagnare più di 500 zloty al mese (quando il prezzo del pane raggiunge gli 80 zloty al chilo), divieto di vendere e comprare dagli “ariani”, divieto di farsi curare dai medici “ariani”, divieto di curare i malati “ariani”, divieto di prendere il treno e il tram, divieto di passare i limiti della città senza il lasciapassare speciale, divieto di possedere oro e gioielli. A partire dal 12 novembre, ogni ebreo dai dodici anni in su deve portare sul braccio sinistro una fascia bianca con una stella di David di colore blu (in alcune città, come Lodz e Wloclawek, si tratta di distintivi gialli cuciti sulla schiena e sul petto).
La popolazione ebraica percossa, calpestata, assassinata senza ragione, vive nella paura permanente. Un solo castigo, la morte, punisce il non rispetto delle regole. Ma il loro rispetto non protegge nessuno dalle migliaia di soprusi cavillosi inimmaginabili, dalle persecuzioni sempre più gravi, dalle leggi sempre più spietate.
Corona il tutto la legge non scritta sulla responsabilità collettiva. Così nei primi giorni di novembre del 1939, cinquanta abitanti del numero 9 di via Nalewki sono fucilati col pretesto che uno di essi ha picchiato un poliziotto polacco. Questo primo esempio di esecuzione di massa aumenta il panico tra gli ebrei. La paura dei tedeschi diviene indescrivibile.
In questa atmosfera di terrore, in queste condizioni modificate così radicalmente, il Bund riprende, o più esattamente prosegue le sue attività sociali e politiche. Malgrado gli avvenimenti, si trova tra noi della gente ancora capace di agire. La prospettiva di essere ucciso sul posto, non per le proprie azioni, ma per il fatto di essere meno di un uomo, un ebreo picchiato e maltrattato, è terribilmente deprimente: la convinzione di non essere più un individuo sopprime ogni volontà di lavorare e ogni sicurezza. Questo spiega meglio perché in un primo tempo, dopo la caduta di Varsavia, la nostra attività si limitasse a delle azioni caritatevoli e perché la decisione di prendere le armi contro l’occupante si manifestasse relativamente tardi e in una forma così debole all’inizio. Il fatto di dover vincere la propria terribile apatia e la propria disperazione, sforzarsi di agire, l’andare contro corrente rispetto al prevalente panico generale esige davvero uno sforzo sovrumano.
…….
Nel gennaio del 1940, la scoperta da parte dei tedeschi della prima radio clandestina polacca dà luogo a una nuova ondata di terrore di massa. In una sola notte, i tedeschi arrestano ed assassinano più di trecento persone, tra cui quadri dei movimenti sociali, intellettuali e membri di professioni liberali. Ma non è tutto. L’occupante prepara già l’installazione del ghetto, senza nominarlo, stabilendo un “Seuchenspergebiet”, cioè una zona minacciata dal tifo, fuori dalla quale gli ebrei non hanno più il diritto di abitare. Gli ebrei costituiscono inoltre una forza-lavoro gratuita di cui approfittano sia i polacchi che i tedeschi. Ma per loro è ancora troppo poco. Il mondo deve sapere che i tedeschi non sono i soli a odiare gli ebrei.
Così, nella Pasqua del 1940, viene istigato un pogrom che dura numerosi giorni. Alcuni aviatori tedeschi assoldano dei teppisti polacchi a quattro zloty al giorno. Per quattro giorni, i teppisti si scatenano impunemente. Il quarto giorno, la milizia del Bund si lancia in operazioni di rivincita. Questo dà luogo a quattro grandi battaglie di strada: la prima in via Mirowska, la seconda tra via Krochmalna e piazza Grzybowski, la terza tra via Karmelicka e via Nowolipie e la quarta tra via Niska e via Zamenhof. Il compagno Bernard Goldsztein dirige queste operazioni dal suo nascondiglio.
Il fatto che nessuno dei partiti del tempo prenda parte a questa azione indica a qual punto la società ebraica sia abbandonata a se stessa. Inoltre, i partiti sono tutti ostili al nostro intervento, che tuttavia trattiene momentaneamente i tedeschi e costituisce la prima manifestazione di resistenza della popolazione ebraica.
Bisognava farne comprendere il senso a tutti. Bisognava dire e mostrare a tutti quelli che erano picchiati e umiliati che noi eravamo ancora capaci di rialzare la testa a dispetto di tutto. E’ in quest’epoca, in occasione del primo maggio, che appare il primo numero del Biuletyn, stampato su un vecchio duplicatore dello SKIF ritrovato per caso in una scuola. Il comitato di redazione comprende Abrasza Blum, Adam Sznajdmil, Bernard Goldsztein. Questo numero è dedicato agli avvenimenti di Pasqua. Ma il pubblico resta indifferente.
2. RASSEGNAZIONE
Nel novembre del 1940, i tedeschi creano il ghetto di Varsavia. Tutta la popolazione ebraica che abita ancora fuori la “Seuchenspergebiet” vi è trasferita…. I muri e i reticolati si alzano di giorno in giorno e chiudono completamente il ghetto il 15 novembre, tagliando dal mondo la società ebraica. I contatti sono interrotti egualmente con gli ebrei delle altre città e borgate. Ogni possibilità di guadagnarsi la vita scompare per gli operai ebrei. Tutti gli operai dell’industria, gli impiegati dello Stato, i lavoratori comunali e i salariati delle ditte “ariane” sono ridotti alla disoccupazione. Appare una categoria di mercanti tipica della guerra: gli intermediari. Ma le vittime della disoccupazione restano, nella maggioranza, dei disoccupati. Essi vendono all’inizio tutto quello che possono, poi cadono a poco a poco in una estrema miseria. I tedeschi si vantano di aver reso il ghetto produttivo, di fatto essi hanno imposto una depauperizzazione assoluta. Vi contribuisce anche l’arrivo di migliaia di ebrei cacciati dalle borgate adiacenti. Privati di tutti i loro beni, essi arrivano senza nessun sostegno in un ambiente sconosciuto, già ripiegato su se stesso. Muoiono di fame mentre si scontrano con l’ostacolo insormontabile di dover ricostruire tutta la loro vita.
L’isolamento totale, il divieto di introdurre giornali, l’assenza di ogni notizia dal mondo mirano a uno scopo ben preciso, orientare la massa degli ebrei verso una stessa direzione: ciò che succede al di là del muro diventa sempre più lontano, vago ed estraneo. Ciò che conta è vivere la giornata, sono i problemi personali e immediati, sono le persone più vicine. Per forza di cose è a questo che si limita l’interesse di un abitante medio del ghetto. La sola cosa che conta è essere vivi.
…La fame cresce di giorno in giorno. Essa esce dagli alloggi oscuri e sovrappopolati per esporre nella strada lo spettacolo dei ventri caricaturalmente gonfi, dei piedi purulenti avvolti in stracci sporchi, coperti di ascessi e di piaghe causati dal gelo e dalla denutrizione. La fame parla con la bocca dei mendicanti, dei vecchi, dei giovani e dei bambini fin nei cortili… In mezzo a queste drammatiche condizioni per la vita ebraica, i tedeschi si sforzano di introdurre un’apparenza di ordine e di potere. Uno Judenrat governa ufficialmente il ghetto dal primo giorno della sua esistenza. Una polizia ebraica in uniforme è istituita per mantenere l’“ordine” necessario. Da quel momento, i ragazzini che trafficano attraverso i reticolati devono diffidare di un terzo potere. La popolazione ebraica ha ora tre cerberi: il tedesco, il poliziotto polacco e il poliziotto ebreo. Le istituzioni tenute ad assicurare al ghetto una sembianza di vita normale sono di fatto fonte di nuove corruzioni e di deprivazioni aggravate. I tedeschi riescono a far entrare nello Judenrat alcune personalità. Il solo membro di questa istituzione che trova, malgrado la minaccia di una condanna a morte, il coraggio di ritirarsi, è il compagno Szmul Zygielboym …
…Con l’inizio della guerra russo-tedesca durante l’estate del 1941, cominciano gli stermini di massa sul territorio della Bielorussia e dell’Ucraina. Nel novembre dello stesso anno gli ebrei sono fucilati a Wilno, Slonim, Bialystok e Baranowicze. A Ponary, vicino a Wilno, alcune decine di migliaia di ebrei vengono assassinati in un lasso di tempo molto breve. Queste notizie arrivano a Varsavia, ma ancora una volta la società male informata resta miope. La maggioranza della popolazione pensa che non si tratti di politica organizzata e deliberata col fine di sterminare il popolo ebraico. Essa non vi vede che degli eccessi di una soldatesca ubriaca delle sue vittorie. Tuttavia i partiti politici e le organizzazioni sociali cominciano ad avere da quel momento un’altra opinione.
Nel gennaio del 1942, una conferenza riunisce tutti i partiti. Tutti sono ora dell’avviso che la sola risposta possibile è l’azione armata. Per la prima volta le organizzazioni Hashomer e Hechalutz propongono un’organizzazione comune di lotta. Marek Orzech e Abrasza Blum, esprimendo il nostro punto di vista, dichiarano che le manifestazioni armate non possono avere successo se non vi è cooperazione e intesa con il movimento clandestino polacco. Tuttavia un’organizzazione di lotta comune a tutti non nasce ancora…
…Gli arresti per il passaggio dalla “parte ariana” si moltiplicano di giorno in giorno, finchè vengono infine istituiti dei tribunali speciali. Il 12 febbraio 1941 diciassette accusati vengono assassinati con l’accusa di essere passati illegalmente nel “settore ariano”. L’esecuzione ha luogo nella prigione ebraica di via Gesia. Alle quattro del mattino delle grida strazianti annunciano agli abitanti delle vie vicine che “giustizia è fatta”, che diciassette miserabili, di cui quattro bambini e tre donne, sono stati appena puniti per essere passati dalla “parte ariana”, alla ricerca di un pezzo di pane o un mezzo di sussistenza…
… Allo stesso tempo i tedeschi, assecondati dalla polizia ebraica, catturano brutalmente la gente nella strada, la strappano dalle case per inviarla nei campi di lavoro installati sul territorio del Governatorato Generale . Essi guadagnano così su due piani. Da una parte ottengono la forza lavoro necessaria, dall’altra suggeriscono a tutti quelli che ne dubitano che ogni deportazione ha per fine la “produttività” e che si può, sebbene in condizioni molto dure, sopravvivere alla guerra nei campi di lavoro tedeschi. I tedeschi sono davvero magnanimi: essi permettono alle famiglie persino di ricevere lettere. La posta arriva massicciamente nel ghetto. Il risultato è che la gente non accorda più alcuna credibilità alle informazioni, sempre più numerose, sullo sterminio della popolazione ebraica. Le deportazione continue degli abitanti della provincia – si dicevano in Bessarabia – si succedono senza provocare praticamente reazioni: il ghetto crede ostinatamente alle voci secondo cui le lettere arrivano anche da laggiù. L’esecuzione, nella foresta di Lublino, di quasi tutto un convoglio di ebrei arrivati dalla Germania un anno prima non viene ritenuta vera. I racconti di questo massacro di Lublino sono troppo orribili per apparire verosimili.
Il ghetto non ci crede.
Da parte nostra noi facciamo del nostro meglio per trovare armi nella “parte ariana”. Ampliamo la nostra organizzazione di combattimento, i cui membri si reclutano soprattutto tra i militanti dello SKIF (Szmul Kostrynski, Jurek Blones, Janek Bilak, Lejb Rozensztajn, Icl Szpilberg, Kuba Zylberberg, Mania Elenbogen e molti altri). E’ difficile qui descrivere il nostro lavoro nella sua continuità e nelle sue difficoltà. E’ una successione ininterrotta di disillusioni e di scacchi. La speranza ripetutamente delusa di ottenere delle armi, la mancanza di comprensione dei compagni polacchi per i nostri problemi, tale è l’atmosfera in cui lavora e cresce la nostra organizzazione.
3. DEPORTAZIONE
… giunge come un atroce presagio dell’avvenire la tragica e sanguinosa notte tra il 17 e il 18 aprile 1942. Alcuni ufficiali tedeschi strappano via dalle loro case una cinquantina di militanti dei movimenti sociali e li fucilano nelle strade del ghetto. Tra i nostri compagni cadono il parrucchiere Goldberg e sua moglie, Naftali Leruch e suo padre, Sklar e molti altri. Anche Sonia Nowogrodska, Luzer Klog e Berenbaum sono ricercati. L’indomani tutto il ghetto è in preda al terrore; i nervi a fior di pelle, si perde nell’immaginare quali possono essere le ragioni di queste esecuzioni. La maggioranza crede che siano stati fucilati i redattori di giornali clandestini, che l’operazione mira agli attivisti politici e che di conseguenza bisogna cessare di agire, per non incrementare così inutilmente e così considerevolmente il numero delle vittime.
Il 19 aprile un numero speciale del nostro settimanale, Der Weker, tenta di spiegare come le ultime esecuzioni siano solo una nuova tappa nello sterminio degli ebrei, che i tedeschi vogliono far fuori gli elementi più attivi tra gli ebrei perchè tutta la massa si lasci in seguito condurre alla morte passivamente, come a Wilno, a Byalistok, a Lublino, e già in altre città. Predichiamo come sempre nel deserto. Solo i giovani dei gruppi Hashomer e Hechalutz condividono il nostro avviso.
… Il 22 luglio alle ore 10 del mattino alcune automobili tedesche si fermano davanti alla sede dello Judenrat. E’ l’ “Umsiedlungsstab” . Dopo un breve colloquio i rappresentanti dello Judenrat sanno quel che vogliono i tedeschi. Si tratta di una cosa molto semplice. Tutti gli ebrei “improduttivi” verranno deportati all’Est. Non appena i tedeschi sono usciti viene indetta segretamente una seconda riunione. Nessuno dei consiglieri si domanda se spetta allo Judenrat di eseguire queste misure. Nessuno dei consiglieri trova da rispondere alla osservazione lanciata dal segretario dello Judenrat: “Signori, prima di prendere disposizioni pratiche, domandatevi se bisogna prenderle”. Nessuno discute se bisogna eseguire gli ordini. Si esaminano solo gli aspetti tecnici. Si stabilisce un piano di lavoro.
L’indomani, dei gradi manifesti bianchi firmati dallo Judenrat (e dettati dall’Oberscharfuehrer Hoefle) informano la popolazione ebraica che ad eccezione di quelli che lavorano presso i tedeschi (la cui lista è rigorosamente stabilita), ad eccezione degli impiegati dello Judenrat e del Mutuo Aiuto Ebraico, tutti gli ebrei devono lasciare Varsavia. La polizia ebraica organizzerà la deportazione in accordo con l’Umsiedlungsstab. Così i tedeschi hanno ottenuto che sia lo stesso Judenrat a pronunciare la condanna a morte dei circa trecentomila abitanti del ghetto.
Il primo giorno della grande retata, duemila detenuti della prigione centrale vengono deportati con alcune migliaia di mendicanti e miserabili arrestati per le strade.
La sera stessa, ha luogo la riunione dei Cinque in cui decidiamo, data la mancanza di armi e l’impossibilità di resistenza, di finalizzare parte della nostra attività a salvare dalla deportazione il maggior numero possibile di persone.
… Il secondo giorno della retata il presidente dello Judenrat, l’ingegnere Adam Czerniakow, si suicida. Egli sapeva ormai perfettamente che la pretesa deportazione all’Est significava la morte di centinaia di migliaia di ebrei nelle camere a gas e non voleva esserne responsabile. Non avendo la forza di opporvisi, preferì morire.
Noi abbiamo pensato che non aveva il diritto di farlo, che il suo dovere, in quanto unica personalità che aveva autorità nel ghetto, fosse di informare tutta la popolazione ebraica della realtà e di sciogliere tutte le istituzioni, soprattutto la polizia ebraica che dipendeva ufficialmente dallo Judenrat, da cui era stata fondata.
Quello stesso giorno appare anche il numero di un nuovo periodico, Ojf der Wach (In Guardia), che previene la gente contro le partenze volontarie e chiama alla resistenza. Nell’editoriale il compagno Orzech scrive: “Malgrado la nostra immensa impotenza, non lasciamoci prendere, difendiamoci con le unghie e con i denti”…
… Al fine di verificare concretamente e senza contraddizioni possibili la sorte dei trasporti umani che lasciano il ghetto, Zygmunt Frydrych è inviato sulle loro tracce, nel “settore ariano”.
Brevissimo, il suo viaggio verso est dura appena tre giorni. Appena varcato il muro, Zygmunt entra in contatto con un ferroviere della stazione di Gdansk, che lavora sulla linea Varsavia-Malikinia. Parte con lui nella stessa direzione dei trasporti e scende a Sokolow, dove la linea si divide, una diramazione conduce a Treblinka. Viene a sapere da alcuni ferrovieri che tutti i giorni un treno merci, stipato di gente proveniente da Varsavia, imbocca questo raccordo e ritorna vuoto. Nessun convoglio alimentare passa di là e la stazione di Treblinka è interdetta alla popolazione civile. Prove tangibili che le persone che vi sono condotte vengono assassinate. L’indomani al mercato di Sokolow Zygmunt incontra due ebrei completamente nudi, scappati da Treblinka. Essi gli descrivono in dettaglio il massacro. Da quel momento non si può più parlare di semplice supposizione poiché i fatti sono confermati da testimoni oculari (uno degli scampati è il nostro compagno Wallach).
Al ritorno di Zygmunt viene pubblicato un secondo numero di Ojf der Wach con una descrizione esatta di Treblinka. Ma gli ebrei si ostinano, persino ora, a non credervi. Chiudono gli occhi, si tappano le orecchie e si difendono “unghie e denti” contro l’atroce verità.
I tedeschi intanto tentano con ogni mezzo e provano un nuovo metodo. Ad ogni volontario che si iscrive per il viaggio promettono e distribuiscono tre chili di pane e un chilo di marmellata. L’offerta è più che sufficiente. La propaganda e la fame fanno il resto.
La prima possiede un argomento imbattibile contro le “favole” sulle camere a gas: “Perché sprecherebbero del pane se intendono massacrarci?”. La fame, ancora più potente, annega tutto nell’immagine di queste tre pagnotte, dorate e croccanti. Il cammino è breve dalle case all’Umschlagplatz (piazza del caricamento). Abbiamo l’acquolina in bocca, gli occhi dimenticano di vedere ciò che vi è in fondo alla strada. L’odore familiare e gradevole inebria il pensiero e gli impedisce di comprendere al di là delle apparenze e di vedere le cose di solito ovvie.
Le persone vanno a centinaia all’Umschlagplatz, fanno vari giorni di fila prima di partire. Ci sono talmente tanti volontari per avere i tre chili di pane che i convogli partono ora due volte al giorno, caricando dodicimila persone, e rifiutando molta gente.
… La piazza dei “deportati”, da dove partono i vagoni, è situata all’estremità del ghetto, in via Stawki. E’ chiusa da muri alti che si aprono solo su uno stretto passaggio severamente controllato dai gendarmi. E’ attraverso questa porta che si fa entrare a infornate la gente disperata e impotente. Hanno tutti in mano dei documenti, certificati di lavoro o carta d’identità. Il gendarme all’entrata vi getta una rapida occhiata. “Rechts”: la vita. “Links”: la morte.
…Il torrente umano cresce fino a invadere tutta la piazza e tre grandi edifici scolastici di tre piani. C’è più gente di quanta ne serve per i prossimi quattro giorni. Essa è presa “di scorta”. Attende quattro o cinque giorni prima di salire nei vagoni. Occupa ogni piccolo spazio libero, si accalca negli edifici, bivacca nelle sale spoglie, nei corridoi, sulle scale. Un fango immondo e appiccicoso copre il pavimento. L’acqua non cola dai rubinetti. I waters sono otturati. Ad ogni passo, il piede affonda negli escrementi umani. L’odore di sudore e di urina è nauseante. Le notti sono fredde, non ci sono vetri alle finestre. Alcuni non hanno indosso che una camicia da notte o una vestaglia da camera.
Il secondo giorno, i crampi dolorosi della fame cominciano a torturare lo stomaco. Le labbra secche si spaccano per mancanza di acqua. L’epoca delle tre pagnotte è ormai passata. Bambini febbricitanti sono adagiati inerti tra le braccia delle loro madri. Gli adulti si rinsecchiscono, si rattrappiscono, diventano grigi.
… Durante questo periodo, perdiamo quasi tutti i nostri compagni. Su più di cinquecento, non ne restano che alcune decine. L’organizzazione di lotta Hechalutz ha più fortuna, riesce a restare quasi intatta. Con operazioni diversive, appicca incendi e abbatte il capo della polizia ebraica, J. Szerynski…
… Il 12 settembre la retata è ufficialmente terminata. Nominalmente restano 33.000 ebrei che lavorano nelle fabbriche e nelle imprese tedesche, compresi i 3.000 impiegati dello Judenrat.
In effetti, se si contano quelli che sono riusciti a nascondersi nelle cantine, ne restano circa 60.000. Tutti sono acquartierati presso i luoghi di lavoro. Di nuovo muri tramezzano il ghetto. Tra i settori si estendono le terre di nessuno, deserti ossessionati dallo sbattere delle finestre aperte nel silenzio mortale della strada e dall’odore dolciastro dei cadaveri all’aria aperta.
4. RESISTENZA
All’inizio dell’ottobre 1942 hanno luogo degli incontri tra il presidio del nostro Comitato Centrale e il comando dell’organizzazione di combattimento Hechalutz al fine di creare un’organizzazione comune. Questa questione, lungamente dibattuta tra i nostri compagni, è finalmente risolta il 15 ottobre dopo una riunione di quadri del Bund a Varsavia. Decidiamo di creare un’organizzazione comune di combattimento con lo scopo di opporre una resistenza armata ai tedeschi, qualora riprendano lo sterminio.
Siamo coscienti che solo un lavoro coordinato e uno sforzo comune possono sortire qualche effetto.
Verso il 20 ottobre viene creata una Commissione di Coordinamento (KK) a cui partecipano rappresentanti di tutti i partiti ebraici esistenti. I nostri rappresentanti sono Abrasza Blum e Berek. Nella stessa riunione è formato il comando della Żydowska Organizacja Bojowa (ŻOB) con Mordechai Anielewicz come comandante. Marek Edelman viene delegato a rappresentare il Bund.
… Di nuovo ricostruiamo una grande organizzazione, ma questa volta non siamo più soli e uniamo i nostri sforzi. Di nuovo, si pone il problema delle armi. Nel ghetto in pratica non ve ne sono.
… Riusciamo tuttavia a ottenere dall’Armata Popolare alcuni revolver. Due attentati vengono allora compiuti in un mese: il 29 ottobre contro Lejkin (comandante della polizia ebraica) e il 29 novembre contro J. First (rappresentante dello Judenrat all’Umsiedlungsstab).
La Żydowska Organizacja Bojowa acquista così popolarità. Altri attentati terroristi vengono organizzati contro capomastri ebrei particolarmente feroci verso gli operai. Nel corso di una di queste spedizioni punitive, alle falegnamerie Hallman, dei Werkschutz tedeschi arrestano tre dei nostri combattenti. Ma la notte seguente il gruppo del settore Roerich, comandato da G. Frysdorf, disarma le guardie tedesche e libera i prigionieri.
Per farsi un’idea delle nuove condizioni della nostra attività, segnalerei un fatto accaduto a metà novembre (in un periodo “calmo”) durante la deportazione di alcune centinaia di ebrei di varie fabbriche verso il campo di concentramento di Lublino. Nel suo vagone merci il compagno Welwe Rozowski rompe la grata del lucernario, fa saltare giù dal treno in marcia sette ragazze…e per ultimo evade egli stesso. Tale impresa era impensabile all’epoca delle prime deportazioni. Anche se si fosse trovata una persona sufficientemente audace da tentare la fuga, i suoi compagni di viaggio glielo avrebbero impedito, per paura delle conseguenti rappresaglie.
… Alla fine del dicembre 1942 riceviamo la nostra prima consegna di armi da parte del comando dell’AK . Sono molto poche: dieci revolver. Questo ci permette tuttavia di preparare la nostra prima azione. La programmiamo per il 22 gennaio: deve essere un’operazione di rappresaglia contro la polizia ebraica. Ma il 18 gennaio 1943 il ghetto viene accerchiato e bloccato: incomincia la seconda grande retata. Questa volta, i tedeschi non riescono a realizzare impunemente i loro piani. Per la prima volta nel ghetto, quattro gruppi trincerati oppongono resistenza armi in pugno.
… gli ultimi avvenimenti hanno un’eco considerevole, sia nel ghetto che fuori. L’opinione pubblica sia polacca che ebraica reagisce immediatamente alle battaglie del ghetto. Perché ora, per la prima volta, i piani tedeschi vengono ostacolati. Per la prima volta cade il mito del tedesco intoccabile e onnipotente. Per la prima volta gli ebrei si convincono che è possibile fare qualcosa contro la volontà e la potenza tedesca. L’importante non è il numero dei tedeschi colpito dalle pallottole della ZOB, ma il risvolto psicologico che l’avvenimento implica. L’importante è che i tedeschi abbiano dovuto interrompere la retata, di fronte a questa resistenza debole ma inattesa.
In tutta Varsavia cominciano a circolare leggende su centinaia di tedeschi uccisi e sull’imponente forza della ZOB. Tutta la Polonia clandestina ci saluta orgogliosa. Alla fine del mese di gennaio riceviamo da parte del comando dell’AK cinquanta pistole di grosso calibro e cinquanta granate.
… All’inizio del febbraio 1943 i tedeschi fanno venire dal campo di concentramento di Lublino dodici caporali ebrei per persuadere la popolazione a partire volontariamente e ad approfittare delle “eccellenti” condizioni di lavoro. La notte seguente l’arrivo di questi caporali, la ZOB circonda il caseggiato dove abitano e li costringe a sloggiare immediatamente. Ma i tedeschi non rinunciano. Essi nominano Toebbens, proprietario della più grande fabbrica di uniformi del ghetto, Commissario alla deportazione. Si tratta di una mossa per dare ulteriore corpo alle voci secondo cui le partenze per Trawniki e Poniatow corrispondono davvero a impieghi in imprese tedesche.
La ZOB si lancia allora in una campagna di propaganda. Proclami sono affissi sui caseggiati e sul muro del ghetto. Toebbens si prepara a rispondere con un appello alla popolazione ebraica, ma le due edizioni del suo appello sono sequestrate dalla ZOB già nella stamperia. In questo periodo la ZOB comanda incondizionatamente nel ghetto. E’ la sola forza, il solo potere che eserciti un’autorità e che la popolazione rispetti.
…Quando nel febbraio del 1943 i tedeschi ordinano la deportazione delle falegnamerie Hallman, solo venticinque operai su mille si presentano. Nella notte due gruppi di combattimento incendiano gli stock dell’impresa (il compagno Frjszdorf partecipa a questo colpo di mano). I danni per i tedeschi ammontano a più di un milione di zloty.
… All’inizio di marzo i tedeschi decidono il trasferimento dei lavoratori della fabbrica di spazzole. Questa volta, sui tremilacinquecento spazzolai, non si presenta nessuno. La ZOB da parte sua realizza i sui piani fino in fondo. Le macchine della fabbrica vengono caricate sui convogli all’Umschlagplatz, ma i treni prendono fuoco alla partenza, incendiati da bottiglie molotov munite, proprio per questo bersaglio, di micce ad accensione ritardata.
… L’Organizzazione è sostenuta da tutto il ghetto. Panettieri e commercianti forniscono razioni alimentari. Gli abitanti più ricchi pagano un’imposta destinata all’acquisto di armi. La ZOB impone un contributo alle istituzioni che dipendono dallo Judenrat. La disciplina è tale che ognuno deve dare qualcosa, volentieri o per forza. Lo Judenrat paga 250.000 zloty, il Dipartimento di Rifornimento 710.000. Le entrate salgono a dieci milioni di zloty in tre mesi. Queste somme sono trasferite nella “parte ariana” dove i nostri rappresentanti organizzano l’acquisto di armi ed esplosivi.
… La ZOB comincia inoltre a ripulire la popolazione ebraica dai suoi nemici e dalle anime dannate vendute ai tedeschi. Pene di morte vengono eseguite dopo i verdetti pronunciati dal comando contro quasi tutti i gestapisti ebrei. Coloro che sfuggono alla nostra giustizia fuggono nella “parte ariana”. Nessuno di essi osa mostrarsi più nel ghetto. Quattro gestapisti vi si avventurano; nella mezz’ora seguente, tre restano uccisi e il quarto gravemente ferito.
… E’ chiaro che i tedeschi hanno capito che non riusciranno a persuadere gli ebrei a lasciare di loro spontanea volontà il ghetto di Varsavia. Le retate ricominciano. Alcuni Werkschutz tedeschi chiudono in guardina alcune di ebrei arrestati nella strada per delitti minori. Li deporteranno il mattino seguente nel campo di Poniatow. Ma il comando della ZOB decide altrimenti. Alle 17,30 un gruppo della ZOB assalta il posto di polizia, terrorizza i poliziotti in servizio e libera tutti gli arrestati. L’azione si svolge davanti al vicino corpo di guardia tedesco che tuttavia ha paura di intervenire. I tedeschi ora cambiano metodo. Ora caricano quelli che arrestano su dei camion e li inviano direttamente all’Umschlagplatz. Ma la ZOB li gioca in velocità. Quando i camion passano nelle “terre di nessuno” che separano i differenti settori – quello che si chiama l’interghetto – gruppi di combattenti ivi dislocati liberano i prigionieri.
5. RIVOLTA
I tedeschi decidono di liquidare il ghetto a qualsiasi costo. Il 19 aprile 1943, alle due del mattino, i primi rapporti dagli avamposti di guardia indicano movimenti di gendarmi tedeschi e poliziotti blu-marino. Essi accerchiano e bloccano il ghetto, posti a intervalli di venticinque metri gli uni dagli altri. Si dà immediatamente l’allarme a tutti i nostri gruppi. Alle 2,15 del mattino, cioè un quarto d’ora dopo, sono già tutti pronti ai loro posti di combattimento. Messa in allarme da noi, la popolazione civile si rifugia immediatamente nei nascondigli e nei rifugi previamente preparati nei solai e nelle cantine. Il ghetto è deserto. Non c’è anima viva. Sola vigila la Żydowska Organizacja Bojowa.
Alle quattro del mattino, in piccoli gruppi di quattro o cinque, in modo da non destare l’attenzione, i tedeschi cominciano a penetrare nelle aree vuote dell’interghetto. E’ soltanto la che si raggruppano in formazioni: plotoni o compagnie. Alle sette del mattino truppe motorizzate, inclusi un certo numero di tank e altri veicoli blindati, invadono a loro volta il ghetto. Fuori le mura è piazzata l’artiglieria. Ora le SS sono pronte all’attacco. In file serrate, a passo cadenzato, avanzano per le vie apparentemente deserte del ghetto centrale… Nel momento in cui tutti i tedeschi fanno un bivacco all’incrocio tra via Mila e via Zamenhof, i gruppi di combattimento, trincerati ai quattro angoli delle strade, aprono un fuoco incrociato, come direbbero i militari. Tutt’a un tratto cominciano a esplodere proiettili sconosciuti (alcune granate fabbricate da noi), corte raffiche di mitraglia lacerano l’aria (bisogna pensare a fare economia di munizioni), i fucili sparano un po’ più lontano. Sono cominciati i combattimenti. I tedeschi tentano di ripiegare ma viene tagliata loro la strada, presto disseminata dei loro cadaveri. Gli scampati riparano nei magazzini e nei portoni vicini. Ma tali rifugi si dimostrano presto insufficienti. Le “gloriose” SS fanno allora intervenire i tank per coprire il “ripiego vittorioso” delle due compagnie. Malgrado ciò la fortuna non è con loro. Il primo tank viene incendiato da una delle nostre molotov. Gli altri sono tenuti a distanza. La sorte dei tedeschi caduti nella trappola Mila-Zamenhof è segnata. Non uno solo di loro ne esce vivo… Un altro importante combattimento si svolge nello stesso tempo all’incrocio tra via Nalewki e via Gesia. Due gruppi di combattimento impediscono al nemico l’entrata al ghetto. La battaglia divampa per più di sette ore…All’angolo di via Gesia si trova un posto di osservazione per l’aviazione tedesca che segnala agli aerei, che volteggiano senza sosta sopra il ghetto, le posizioni degli insorti e i bersagli da bombardare. Ma i combattenti del ghetto non si lasciano schiacciare né dalle forze aeree né dalle forze di terra. La battaglia all’incrocio Gesia-Nalevki si compie con la disfatta completa dei tedeschi.
Combattimenti accaniti hanno luogo contemporaneamente anche a piazza Muranowski. I tedeschi attaccano da tutte le parti. I franchi tiratori accerchiati si difendono furiosamente, respingono l’assalto con uno sforzo sovrumano e si impadroniscono di due mitragliatrici e di numerose armi. Un tank tedesco brucia. E’ il secondo della giornata.
Alle quattordici non c’è più un tedesco vivo nel ghetto. La prima vittoria della ZOB sui tedeschi è totale.
… L’indomani il silenzio si protrae fino alle due del pomeriggio. I tedeschi avanzano allora in file serrate verso l’entrata della fabbrica di spazzole. Non sanno che una sentinella li sorveglia con una presa di corrente in mano. Un Werkschutz avanza verso il portone per aprirlo. Proprio in quel momento la presa viene innescata. Sotto i piedi delle SS esplode la mina che li attendeva da tanto tempo. Più di cento SS sono uccisi dall’esplosione, gli altri si ritirano, incalzati dal fuoco dei nostri combattenti. Due ore più tardi i tedeschi ci provano di nuovo. Essi procedono in un altro modo, ora avanzano prudentemente, in fila indiana, in formazione da combattimento. Cercano di metter piede nel settore degli spazzolai, ma trovano una seconda volta l’accoglienza che si meritano. Su trenta tedeschi che riescono a entrare nell’area della fabbrica, solo un piccolo numero ne esce vivo. Gli altri restano uccisi dalle esplosioni delle granate e delle molotov. Il nemico si ritira dal ghetto. I franchi tiratori festeggiano la loro seconda vittoria totale.
I tedeschi non si danno per vinti. Tentano di penetrare nel ghetto da più parti ma dappertutto si scontrano con una viva resistenza. Ogni caseggiato combatte. D’improvviso siamo accerchiati in un solaio. I tedeschi sono già dentro, è impossibile raggiungere le scale. Nella penombra non possiamo nemmeno riconoscerci. Non vediamo Sewek Dunski e Junghajzer strisciare lungo le scale per raggiungere il solaio, prendere l’avversario alle spalle e lanciargli una granata. Non riusciamo nemmeno a capire che Michal Klepfisz si getta su una mitragliatrice tedesca che sta per fare fuoco su di noi da dietro un caminetto. Vediamo solo il passaggio ora libero. Alcune ora più tardi, allorchè i tedeschi hanno ripiegato, ritroviamo il corpo di Klepfisz, crivellato come un colabrodo da due raffiche di mitraglia. Il settore degli spazzolai resta imbattuto.
… i tedeschi…ricorrono ora a un nuovo mezzo, apparentemente infallibile. Da tutte le parti contemporaneamente danno fuoco al settore degli spazzolai. In un istante le fiamme avvolgono tutto l’agglomerato dei caseggiati. Un fumo nero e spesso prende alla gola e brucia gli occhi. Gli insorti naturalmente non hanno intenzione di lasciarsi bruciare vivi. Puntiamo tutto su una sola carta, decidendo di aprirci un varco ad ogni costo per raggiungere il ghetto centrale.
Le fiamme lambiscono i nostri abiti che cominciano a consumarsi per il calore. I piedi affondano nel vischioso catrame, trattenuti da pozzanghere formate da detriti di vetro fuso. Le suole prendono fuoco sul selciato che brucia. Uno per uno, ci apriamo un varco attraverso l’incendio, da una casa all’altra, da un cortile all’altro. L’aria è irrespirabile. Cento martelli ci picchiano sulla testa: putrelle incandescenti ci cascano addosso. Finalmente usciamo dalla zona di fuoco, felici di sfuggire all’inferno.
… Congiunti ai gruppi del ghetto centrale, continuiamo a combattere. Anche in questo settore, come in quello degli spazzolai prima, è praticamente impossibile muoversi. Violenti incendi chiudono strade intere. Il mare di fiamme invade i caseggiati e i cortili. Le strutture crepitano, i muri crollano. Non c’è aria. Non c’è che il fumo nero, soffocante, e il calore bruciante irradiato da muri roventi e scale incandescenti, come un’immensa fornace. Ciò che i tedeschi non erano riusciti a fare, il fuoco onnipotente lo realizza ora. A migliaia periamo nelle fiamme. L’odore dei corpi arrostiti prende alla gola. Ovunque, sui balconi, alle finestre, sulle scale di pietra che non hanno preso fuoco, giacciono cadaveri carbonizzati. Il fuoco caccia fuori la gente dai rifugi, li snida dai nascondigli che avevano arrangiato da lungo tempo, in luogo sicuro, in un solaio o in una cantina. Migliaia di persone vagano nei cortili, esponendosi alla cattura, detenuti o uccisi sul campo dai tedeschi. Mortalmente estenuati, si addormentano nei portici, in piedi, seduti o sdraiati, ed è nel sonno che li colpiscono le pallottole tedesche. Nessuno si accorge che la vecchia che sembra dormire sotto un portico non si sveglierà più. Nessuno nota che la madre che vediamo allattare il suo bambino è in realtà da tre giorni un cadavere freddo e che il bimbo tra le sue braccia succhia piangendo un seno morto. Centinaia di persone si suicidano gettandosi dal terzo o quarto piano. Alcune madri risparmiano ai loro piccoli il supplizio delle fiamme. La popolazione polacca assiste a queste scene da via Swietojerska e da piazza Krasinski.
… Tenuto conto di queste nuove condizioni di lotta, la ZOB cambia tattica. Cerca di proteggere quanti più gruppi di abitanti possibile, nascosti nei rifugi. Due sezioni della ZOB (quella di Hochberg e di Berek) fanno uscire così in pieno giorno numerose centinaia di persone dal nascondiglio del n. 37 di via Mila per scortarli al n. 7 della stessa via. Riusciamo a difendere per una settimana questo luogo in cui si sono rifugiate migliaia di persone. Fuori, il ghetto è pressoché interamente bruciato. Non c’è praticamente più un muro in piedi e, quel che è peggio, non c’è più acqua. I franchi tiratori scendono con la popolazione civile nei rifugi per difendere quel che ancora si può.
I combattimenti e gli scontri si svolgono ormai soprattutto di notte. Durante il giorno, il ghetto è interamente morto. Solo quando le strade sono immerse nella notte, le pattuglie della ZOB e le pattuglie tedesche si incontrano. Chi spara prima, vince. Le nostre pattuglie battono tutto il ghetto. Ogni notte fa numerosi morti da una parte e dall’altra. I tedeschi e gli ucraini non si muovono che in grandi gruppi e tendono spesso imboscate.
Il comando della ZOB decide di celebrare il primo maggio con un’azione speciale. Vari gruppi di combattimento escono nel settore, con la missione di “cacciare” il numero più grande possibile di tedeschi. La sera ha luogo il raduno per il primo maggio. Breve discorso. L’Internazionale. Il mondo intero, si sa, festeggia questa giornata. Nel mondo intero, nello stesso giorno, sono pronunciate le stesse potenti parole. Ma l’Internazionale non è stata cantata mai, finora, in condizioni così tragiche, in un luogo in cui un intero popolo è morto e non finisce ancora di morire. Questo parole e questo canto di cui le rovine fumanti rinviano l’eco testimoniano che la gioventù socialista si batte ancora nel ghetto e che non le dimentica nemmeno di fronte alla morte.
… Con l’aiuto dei localizzatori di voci e dei cani-poliziotto, i tedeschi ora tentano di individuare i rifugi degli ebrei. Il 3 maggio scoprono un rifugio al n. 30 di via Franciszkanska, dove si trova la base operativa del nostro gruppo di combattimento, ripegata là dalla fabbrica di spazzole. I franchi tiratori oppongono le tecniche di lotta più elaborate. Questi combattimenti durano due giorni e il cinquanta per cento dei nostri vi restano uccisi.
… L’8 maggio il comando della ZOB è circondato dai tedeschi e dagli ucraini. Due ore di feroce combattimento hanno luogo. Quando gli aggressori constatano che non riusciranno a espugnare la posizione, gettando una bomba a gas all’interno del bunker. Quelli che non sono uccisi dalle pallottole tedesche o asfissiati dal gas si suicidano. E’ evidente che non c’è più scampo e nessuno pensa di consegnarsi vivo nella mani dei tedeschi. Jurek Wilner chiama tutti i combattenti a suicidarsi insieme. Lutek Rotblak spara sulla madre e sulla sorella, poi volge l’arma contro di sé. Ruth si spara sette colpi.
Così muore l’ottanta per cento dei combattenti superstiti e tra loro il comandante Mordechai Anielewicz.
Durante la notte alcuni scampati, miracolosamente salvati da via Mila, si uniscono al resto delle sezioni degli spazzolai installati ora al n. 22 di via Franciszkanska.
Proprio quella stessa notte arrivano dalla “parte ariana” i nostri agenti di collegamento (S. Katajzer – Kazik – e Franek). Dieci giorni prima il comandante della ZOB aveva inviato Kazik e Zygmunt Frydrych da Itzhak Cukierman (Antek, nostro rappresentante nella “parte ariana”) al fine di organizzare una fuga attraverso le fognature.
Ed ecco, ora è troppo tardi. La ZOB non esiste quasi più. In questo modo, è impossibile far uscire d’un sol colpo l’insieme dei sopravvissuti. Il cammino nelle fognature dura tutta la notte. Nei cunicoli, incappiamo continuamente negli ostacoli disposti dai tedeschi preveggenti. I tombini delle fognature sono bloccati dalle macerie. Nelle buche d’accesso sono sospese delle bombe che esplodono al minimo contatto. Talvolta i tedeschi scaricano dei gas asfissianti nelle gallerie. Prima di poter uscire, aspettiamo quarantott’ore in un budello di 70 centimetri di altezza, dove evidentemente è impossibile raddrizzarsi, dove l’acqua arriva alle labbra. Ad ogni istante uno di noi sviene. La sete è terribile. Certuni bevono il liquame spesso e fangoso. I secondi sembrano mesi.
Il 10 maggio alle dieci del mattino due camion arrivano sopra i tombini delle fognature dell’incrocio tra le vie Twarda e Prosta. Il tombino si solleva in pieno giorno quando non c’è praticamente nessuna protezione (la copertura dell’AK non è all’appuntamento, e a pattugliare la via non si vedono che tre dei nostri e un rappresentante dell’AK delegato per questa missione, il comandante Krzaczek). Uno dopo l’altro, sotto gli occhi di una folla stupefatta, gli ebrei escono dal buco nero con le armi alla mano. In quest’epoca, la sola vista di un ebreo era un avvenimento eccezionale. Non riusciamo a uscire tutti. Il tombino ricade pesantemente. I camion ripartono a tutto gas.
Due gruppi di combattimento sono rimasti nel ghetto. Noi manteniamo i contatti con loro fino a metà giugno. In seguito ogni traccia di loro sparisce.
Quelli che hanno raggiunto la “parte ariana” continuano la lotta nella Resistenza. La maggioranza di loro resterà uccisa. Un piccolo pugno di superstiti parteciperà attivamente, in quanto gruppo della Żydowska Organizacja Bojowa, all’insurrezione di Varsavia dell’agosto 1944.
Il 10 maggio del 1943 si compie il primo periodo della storia sanguinosa degli ebrei di Varsavia. Il luogo ove sorgeva il ghetto è divenuto una distesa di rovine che si elevano all’altezza di un secondo piano.
Coloro che sono stati uccisi hanno compiuto il loro dovere fino alla fine, fino all’ultima goccia di sangue che imbeve il selciato del ghetto di Varsavia.
Noi, che siamo sopravvissuti, vi lasciamo la cura di conservarne per sempre la memoria.